Adolescenti e lo stare da soli: tra capacità e desiderio, imposizione e possibili effetti.

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Introduzione

La dimensione relazionale e gruppale è importante quasi quanto la capacità di stare da soli e passare del tempo con sé stessi. In adolescenza, periodo di vita cruciale per lo sviluppo del sé e dell’identità, ancora di più il benessere dell’individuo non può considerarsi svincolato da un buon esito nei rapporti affettivi e sociali. Tuttavia, nel cammino verso l’individuazione e la conquista dell’autonomia, l’adolescente si trova a fare esperienza di situazioni da solo e/o a sperimentare un senso di solitudine. Questi ultimi sono momenti per il giovane che possono colorarsi di diversi significati a seconda del contesto e intersecarsi con le peculiari caratteristiche personologiche, portando diversi esiti, più o meno negativi. Date queste considerazioni sull’adolescente, quali possibili effetti potrebbero presentarsi se per cause ambientali esterne, come per il lockdown per l’emergenza sanitaria da COVID-19, agli adolescenti sono costretti a passare più momenti da soli?

L’adolescenza è una fase di vita caratterizzata da momenti di instabilità e ricca di trasformazioni, pur tuttavia periodo importante per la costruzione del sé e la definizione in termini di identità. Erikson in proposito, nella definizione degli 8 stadi di sviluppo psicosociale, aveva denominato identità vs conflitto di identità la crisi che l’adolescente si trova a dover superare: la ricerca di un nuovo senso di continuità e lo stabilirsi di nuove appartenenze (Erikson, 1959). Riconosciuta dalla letteratura come secondo processo di separazione-individuazione (es. Steinberg, 2002), questa è una fase in cui si evidenzia reciprocità fra la dimensione della connessione e quella dell’autonomia, coinvolgendo al contempo la capacità di funzionare in modo indipendente e autodiretto e l’inclinazione a stabilire relazioni intime. I ragazzi e le ragazze infatti iniziano a trascorrere più tempo con i coetanei e meno coi genitori e con gli adulti. L’adolescente si trova anche a sperimentare momenti di vita solitaria, che possono avere diverse coloriture di significato. L’esperienza di stare soli è multidimensionale e, secondo una ricerca di Corsano, Majorano, & Champretavy (2006), può anche comportare una dimensione di piacevolezza.

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https://raisingteenstoday.com/power-of-solitude-why-alone-time-key-to-teens-well-being/

Sembra, in proposito, che gli adolescenti più grandi, tra i 17-19 anni, rispetto a quelli più giovani, manifestino più atteggiamenti positivi nei confronti dello stare soli con anche più desiderio di trascorrere tempo con sé stessi, indipendentemente dalla qualità delle loro relazioni interpersonali (Marcoen, Goossens e Caes,1987). Interpretando questi risultati alla luce dei considerevoli cambiamenti che si verificano durante l’adolescenza, pare esserci la possibilità che diverse esperienze dell’ “essere soli” possano far parte del processo di separazione-identificazione e costruzione dell’identità. Seguendo un approccio centrato alla persona, si sono potuti identificare 3 profili in adolescenza in merito allo stare da soli (Corsano, Majorano, & Champretavy, 2006). In primo luogo si è evidenziata una avversione allo stare soli che è risultata associata ad un funzionamento psicologico adattivo. Poi può esserci un’affinità/ricerca di momenti da soli che può configurarsi come una “solitudine costruttiva”, data da un pensiero astratto sempre più sviluppato e dalla necessità di uno spazio intimo per esempio per l’espressione artistica e l’auto riflessione, oppure come una “solitudine non costruttiva”, che è risultata associata invece ad un funzionamento disadattivo. C’è da precisare che nella lingua inglese ci sono diversi termini che permettono di distinguere alcuni dei significati attribuiti in italiano alla parola solitudine, per cui l’ultimo profilo presentato verrebbe tradotto con loneliness configurandosi come dimensione soggettiva negativa del “sentirsi soli” (anche non essendolo fisicamente). Col termine inglese solitude, invece, si richiama la solitudine fisica volontaria e desiderata, momento per sé stessi, come una “solitudine costruttiva”.

Nell’adolescenza almeno tre aspetti della sfera relazionale, fortemente interconnessi tra loro, risultano significativi per meglio comprendere le esperienze di solitude e di loneliness. Un primo aspetto è la qualità dell’amicizia, che in negativo è correlata a stress e sintomi depressivi oltre che all’autostima. Quest’ultima in adolescenza è molto più sensibile a influenze ambientali esterne: quando è alta solitamente ne discende un atteggiamento positivo verso lo stare da soli, contrariamente a quando risulta bassa. Un terzo elemento è la sensibilità al rifiuto, a sua volta associata ad una bassa autostima poiché ne scaturiscono sentimenti di inadeguatezza legati all’immagine si sé e tensioni verso l’accettazione sociale: queste possono far provare un senso di isolamento e incoraggerebbero a passare più tempo da soli per evitare il confronto. In proposito si è osservato come i sistemi fisiologici delle persone che si sentono sole assorbirebbero maggiormente l’impatto dei fattori di stress incontrati nel quotidiano: persone che avvertono il senso di solitudine sentono le circostanze quotidiane come più pesanti, minacciose, esigenti sentendo loro stessi come meno auto efficaci nell’affrontarle (Hawkley & Cacioppo, 2003). Le relazioni sociali in tutti i periodi di vita, così come nel periodo adolescenziale, fungono indirettamente da moderatori delle risposte allo stress: sentirsi ascoltati, accettati e inclusi fa stare meglio.

IN TEMPO DI COVID-19: RIFLESSIONI SULLO STARE DA SOLI E SUL DISTANZIAMENTO SOCIALE

Gli effetti del comportamento solitario dipendono però anche da quanto le persone si sentano autonome rispetto al controllo del tempo da sole. Infatti, come già accennato più sopra, può esserci una solitudine scelta, frutto di una motivazione autonoma che si accompagna a sensazione di sicurezza riguardo ai propri attaccamenti o comunque possono discendere da caratteristiche di personalità che (in un immaginario continuum) sono più vicine al polo dell’introversione. Esiti più negativi sembrano essere associati ad un comportamento solitario quando deriverebbe da una motivazione controllata, vissuto dunque come effetto di pressioni di forze esterne (Chua & Koestner, 2008). La recente emergenza sanitaria a livello mondiale ha costretto tutta la popolazione a restare a casa per contenere i contagi dal nuovo Corona Virus. Così anche i bambini e gli adolescenti, anche per il fatto di non poter più andare a scuola, hanno ridotto le occasioni di frequentazione e confronto coi coetanei, limitando gli scambi con essi ai soli contatti telefonici e telematici on line. È pur vero che, anche per chi ha la fortuna di poterne usufruire e ne sa fare un corretto uso, sono comunque mezzi di scambio per certi versi lacunosi, e possono colmare l’assenza di contatti sociali solo in maniera superficiale. Dunque un isolamento sociale forzato e prolungato accompagnato per giunta ad una prolungata esposizione a stimoli di rischio e di pericolo, che arrivano in particolare dai canali mediatici. Un livello alto di allerta che ha riguardato anche e soprattutto le persone con minori capacità critica e analisi del problema come bambini e adolescenti.

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Inutile dire che il lockdown, e tutto ciò che ha comportato non ha portato e non porterà effetti positivi sul benessere psicologico. Ora che il peggio sembra passato, e sono state allentate alcune le restrizioni, sembra permanere ancora l’ansia con una paura di ripartire. Alcuni psicologi parlano della “sindrome della capanna” per racchiudere quelle sensazioni di disagio, insicurezza e confusione verso la ripresa di ritmi di vita e verso la “ripartenza”. Non si tratta di un disturbo psicologico, si tratta invece di una reazione normale. Aver trascorso tante settimane isolati ci ha abituati a quella sicurezza che troviamo solo tra le quattro mura domestiche e senza dimenticare che il Coronavirus non è comprensibile che la paura di contrarre il virus aumenti l’insicurezza e il timore di varcare la soglia di casa visto che il rischio di contagio è ancora presente. La sindrome della capanna, o cabin fever in inglese, è un’esperienza già descritta all’inizio del XX secolo. Le prime descrizioni cliniche della sindrome della capanna risalgono al 1900, epoca della corsa all’oro negli Stati Uniti. I cercatori erano costretti a passare mesi interi all’interno di una capanna. La necessità di concentrare l’attività in determinati periodi dell’anno, portando all’isolamento per diverso tempo, faceva sentire i suoi effetti: rifiuto di tornare alla civiltà, sfiducia nei confronti del prossimo, stress e ansia. Un quadro sintomatologico comune anche nei guardiani dei fari, prima dell’automatizzazione, e si adatta bene anche all’attuale circostanza di quarantena. Tra i sintomi più comuni c’è la letargia: condizione sentirsi stanchi, con braccia e gambe intorpidite e bisogno di fare lunghi pisolini. A questa si aggiungono sintomi cognitivi come difficoltà di concentrazione e scarsa memoria. Si manifesta spesso attraverso un quadro emotivo specifico con tristezza, paura, angoscia, frustrazione, ma la caratteristica più evidente, d’altra parte, è la paura di uscire, che  spesso viene camuffata.  Infatti chi manifesterebbe questa “sindrome” si limiterebbe a esprimere poca voglia di uscire perché sta bene in casa, dove c’è tutto quello di cui ha bisogno. Tutto questo è anche effetto del distanziamento sociale: aumentando le distanze, aumenta la diffidenza e la paura, e facilita la costruzione di barriere e l’evitamento dell’incontro anche quando è di nuovo possibile. Il ritiro sociale inizialmente può offrire sensazioni di sollievo, come può esserlo stato nel primo periodo di grave emergenza pandemica in cui nelle proprie case ci si è potuti sentire al sicuro. Tuttavia se protratto può accompagnare sentimenti depressivi legati proprio al timore di non trovare il coraggio di uscire, smuoversi dalla condizione di stallo. Ognuno ha reagito alla situazione in maniera diversa, anche in base alle proprie risorse psicologiche, e al momento di vita che si sta attraversando, alla presenza/assenza del supporto genitoriale e così via. Ad un adolescente con già difficoltà a instaurare rapporti amicali e /o tendenzialmente introverso, questo isolamento sociale per esempio potrebbe incoraggiare ancor di più al ritiro. È importante, quindi, comprendere e rispettare l’atteggiamento di chi, in questo momento, non aspetta con piacere la fase in cui potremo riconquistare un contatto con il mondo esterno. Ci sono piccoli accorgimenti che posso essere utili, a detta di psicologi e psicoterapeuti per ripartire più serenamente. Intanto, ora più che mai è importante la gradualità: un confronto graduale con le paure verso l’esterno, nel ritornare ai ritmi della quotidianità e nel rincontrare persone care. Dunque è necessario darsi tempo e procedere a piccoli passi. Può essere utile per gestire il tempo e non dare troppo spazio alla ruminazione, in particolare agli adolescenti che non hanno più i ritmi scanditi dalla scuola e dalle uscite con gli amici per esempio, ri-stabilire una routine, quanto più salutare, e impegnarsi a seguirla.

Bisogna ammettere che quella che stiamo vivendo è una situazione senza precedenti e sta mettendo di fronte a tutti diverse sfide psicologiche: è importante chiedere aiuto se si riconosce di non riuscire a gestire da soli questa situazione.

 

Beatrice Dearca

Bibliografia

Chua, S. N., & Koestner, R. (2008). A self-determination theory perspective on the role of autonomy in solitary behavior. The Journal of social psychology, 148(5), 645-648.

Capps, D. (2004). The decades of life: Relocating Erikson’s stages. Pastoral Psychology, 53(1), 3-32.

Corsano, P., Majorano, M., & Champretavy, L. (2006). Psychological well-being in adolescence: The contribution of interpersonal relations and experience of being alone. Adolescence, 41(162), 341-354.

Erikson, E. (1959). Identity and the life cycle. New York: W. Norton.

Hawkley, L. C., & Cacioppo, J. T. (2003). Loneliness and pathways to disease. Brain, Behavior and Immunity, 17(1), S98–S105.

Marcoen, A., Goossens, L., & Caes, P. (1987). Lonelines in pre-through late adolescence: Exploring the contributions of a multidimensional approach. Journal of Youth and Adolescence, 16(6), 561-577

Melotti, G. (2010). La rappresentazione della solitudine e della persona solitaria in adolescenza. IL PUNTO, 69.

Steinberg, L. (2002). Clinical adolescent psychology: What it is, and what it needs to be. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 70, 124-128.

https://lamenteemeravigliosa.it/sindrome-della-capanna-paura-di-uscire-dalla-quarantena/

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