Storia dell’ansia: patologia del nuovo millennio o dalle origini lontane?

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I disturbi d’ansia sono definiti nel DSM-5 (Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Mentali) come “sensazioni di nervosismo, tensione o panico in risposta a differenti situazioni; frequente preoccupazione per gli effetti negativi delle passate esperienze spiacevoli e le eventualità negative future; sensazioni di timore e apprensione in situazioni di incertezza, prospettando il peggio.” (DSM 5).

Tali disturbi risultano essere i disturbi psicologici più diffusi a livello mondiale, con una prevalenza globale del 7,3% (Thibaut, 2017). In uno studio americano condotto su 8000 adulti, circa il 28% dei partecipanti ha riportato di aver avuto esperienza, almeno una volta nella vita, di sintomi tipici di un disturbo d’ansia, secondo i criteri di classificazione del manuale diagnostico dei disturbi mentali allora in uso (DSM-IV-TR). Tra questi, la fobia è risultata quella più comune.

A seguito della pandemia da COVID-19, nel giro di un anno la prevalenza dei disturbi d’ansia, insieme ai disturbi depressivi, è aumentata del 25% ed ha colpito in particolar modo i giovani e le donne (World Health Organization, 2022).

Nonostante il notevole incremento dovuto alla pandemia, non risultano esserci prove evidenti sul fatto che tali disturbi siano aumentati negli ultimi decenni (Thibaut, 2017). Infatti, sebbene l’ansia sia spesso considerata la patologia nel nuovo millennio, le sue origini hanno radici molto lontane.

Le origini dell’ansia

La psichiatria, come la medicina, ha origini lontane che risalgono alla filosofia greca (Kasper, Boer & Sitsen, 2003). I greci, infatti, cominciarono ad abbandonare le spiegazioni della malattia mentale basate sul soprannaturale in favore di osservazioni e ragionamenti sistematici sui fenomeni osservati. Ippocrate per primo nel Corpus Hippocraticum, una raccolta di testi medici scritti da lui e i suoi allievi tra il 460 a.C e il 370 d.C. circa, descrive un caso di fobia di un uomo di nome Nicanor e la interpreta come un disturbo organico (Crocq, 2015).

Cicerone (dal 106 a.C. al 43 a.C.) nelle “Dispute Tusculane” descrive preoccupazione e angoscia come veri e propri disturbi, delinando una prima analogia tra tra mente malata e corpo malato, e anche lui descrive l’ansia come una malattia organica.

Gli scritti filosofici stoici latini, come i trattati di Cicerone e Seneca, presentano delle strategie per riconoscere l’ansia patologica e trattarla che anticipano la visione moderna dell’ansia e del suo trattamento cognitivo (Crocq, 2015).

Seneca (4 a.C. – 65 d.C.), ad esempio, nel suo libro “De Tranquillitate Animi” insegna come ottenere la libertà dall’ansia partendo da uno stato ideale di “pace della mente”. Secondo il filosofo, la paura della morte è il principale pensiero che impedisce di godere serenamente della vita e il modo per liberarsi da tale preoccupazione è quello di porre attenzione al momento presente, invece di preoccuparsi del passato o del futuro. Attualmente, questa focalizzazione sul momento presente è uno degli obiettivi caratteristici delle pratiche meditative e di consapevolezza. Anche secondo Epicuro (341 a.C. – 270 a.C.), per avere una vita felice era necessario che la mente fosse libera da preoccupazioni e questo poteva avvenire liberandosi delle cognizioni negative su passato e futuro.

Inizialmente però, fino a alla metà dell’Ottocento circa, non vi era una distinzione tra ansia e depressione, le quali erano inglobate all’interno del concetto di Melanconia (Kasper et al., 2003).

Il termine melanconia, utilizzato per la prima volta nel Corpus Hippocraticum, in greco significa bile nera (“melaina chole”) e fa riferimento alla teoria umorale, secondo la quale tale disturbo è dovuto ad un disequilibrio dei quattro fluidi corporei o umori: sangue, bile nera, bile gialla e catarro (Westenberg, Boer & Murphy, 1996). Per tale ragione la melanconia è definita anche ”malattia della bile nera”.

L’equilibrio dei fluidi corporei, secondo la teoria umorale, era influenzato da fattori come il clima, l’età, i cambiamenti, la stagionalità, lo sforzo mentale e le abitudini alimentari, mentre la costituzione umorale di una persona si riferiva al temperamento. Di conseguenza, un individuo poteva essere predisposto alla melanconia se aveva un eccesso di bile nera o se la sua bile nera era particolarmente suscettibile al caldo o al freddo, delineando una corrispondenza tra l’equilibrio esistente tra gli umori e un equilibrio di tipo biopsicologico (Kasper et al., 2003). Tra i rimedi per la melanconia vi erano: un’alimentazione equilibrata, fare attività fisica, vivere alla luce e fare bagni.

Circa 5 secoli più tardi, Galeno (131-201 d.C.) definisce la bile nera non più causa del disturbo ma un suo effetto (Westenberg et al., 1996) e distingue tre forme di melanconia che richiedevano trattamenti specifici e differenti tra loro: una prima forma di melanconia generalizzata, caratterizzata da sangue pieno di bile nera, una seconda cerebrale che coinvolge il cervello e una terza ipocondriaca che colpisce gli organi della parte superiore dell’addome (Kasper et al., 2003).

L’ansia nel Medioevo

All’inizio del Medioevo l’ansia era particolarmente legata alle condizioni critiche del tempo: il rischio di malattie quali lebbra e peste e la presenza di guerre e invasioni.

Nel corso del Medioevo gli studiosi, partiti dalle basi create da Ippocrate e Galeno, sono arrivati a una sistematizzazione della patologia umorale, distinguendo la melanconia causata da un eccesso di bile nera naturale da quella causata da un eccesso di bile innaturale, dovuta alla degenerazione o combustione di uno dei quattro fluidi corporei (Kasper et al., 2003; Westenberg et al., 1996).

Nel 1621, Robert Burton in “The Anatomy of Melancholy” presenta una rassegna della letteratura dall’antichità al XVII secolo evidenziando come la melanconia comprendesse depressione e ansia e come paura e dolore fossero legati tra loro e costituissero le principali cause della melanconia (Crocq, 2015; Westenberg et al.,1996). In particolare, nel descrivere i sintomi di tale disturbo, Burton riporta forme di ansia molto attuali: paura della morte, paura di perdere una persona cara, depersonalizzazione, ipocondria, ansia anticipatoria, iperventilazione, agorafobia e molte fobie specifiche, come la paura di parlare in pubblico, la paura dell’altezza e la claustrofobia.

Cartesio in “Le passioni dell’anima” (1646) dirige l’attenzione verso la fisiologia delle emozioni e porta a un inizio di quella che è la visione meccanicistica della malattia nel XVIII secolo. Secondo lo studioso, le passioni non solo preparano il corpo ma predispongono l’anima a desiderare ciò per cui il corpo si prepara e quindi le manifestazioni corporee delle emozioni sono utili per comprendere le funzioni delle emozioni (Kasper et al., 2003).

Verso la fine del 1700, l’enfasi venne spostata dall’umoralismo allo studio della percezione sensoriale e i sensi, in quanto si cominciava a pensare che la melanconia fosse causata da una disfunzione del sistema nervoso centrale e non più dal sangue (Kasper et al., 2003; Westenberg et al.,1996). Iniziano quindi ad essere presi in considerazione le condizioni del cervello e del corpo, e si inizia a delineare una relazione, ad esempio, tra un malfunzionamento cardiaco e lo stato d’animo di una persona (Kasper et al., 2003).

Emil Kraepelin, infine, descrive l’ansia come l’emozione più frequente e per tale ragione si concentrò maggiormente sullo studio dell’ansia come sintomo associato ad altri disturbi. Per Kraepelin, l’ansia si caratterizzava per la presenza di uno stato di tensione ma anche di anedonia (mancanza di piacere) che coinvolgevano sia mente che corpo.  Fu proprio lui ad individuare la presenza di ansia significativa nel disturbo maniacale e depressivo e ad anticipare lo specificatore di “angoscia ansiosa” dei disturbi bipolari presenti nel DSM-5.

 

Dal Medioevo alla nascita del DSM

Le prime forme di ansia considerate e studiate, sin dai tempi degli antichi grechi, erano fobie specifiche, mentre in Über Praecordiaiangst (Sul dolore precordiale) di Flemming (1848), per la prima volta vengono trattate forme di ansia non fobiche, segnando una svolta storica nella concettualizzazione dei disturbi d’ansia (Kasper et al., 2003).

Nel 1870, esce un articolo di Benedikt (1870) intitolato ÜberPlatzschwindel (Sulle vertigini sui quadrati)  nei quali viene descritto un paziente che, trovandosi in una piazza, ha cominciato ad avere le vertigini e da quel momento ha evitato quei luoghi. Benedikt credeva che l’ansia fosse secondaria alle vertigini ma, due anni dopo, Westphal (1872) contesta tali ipotesi sostenendo che fosse stata proprio l’ansia a causare le vertigini e utilizza per la prima volta il termine “agorafobia”.

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, cominciano a comparire ulteriori nuove categorie diagnostiche, dalla nevrastenia alle nevrosi, nelle quali l’ansia è una componente chiave (Crocq, 2015). Tuttavia, soprattutto in questo periodo, il termine ansia viene spesso considerato sinonimo di “angoscia”. La distinzione tra i due termini è presente solo nelle lingue latine, mentre l’inglese (anxiety) e il tedesco (Angst) utilizzano la stessa parola per indicare tale emozione, e ciò ha generato confusione in ambito psicologico e psichiatrico.

In tale contesto, George Miller Beard (1869) descrive per la prima volta la nevrastenia come una patologia caratterizzata da un deficit di “energia nervosa” e quindi tipica di tutte le malattie nervose (Crocq, 2015; Westenberg et al.,1996). Per Beard, tale disturbo era caratterizzato da numerosi sintomi quali malessere generale, dolori nevralgici, isteria, ipocondria, sintomi ansiosi e depressivi. La nevrastenia esiste tutt’ora e costituisce una categoria diagnostica all’interno dell’ICD-10 (Crocq, 2015).

Sigmund Freud critica il concetto di nevrastenia di Beard e lo separa nettamente dalla nevrosi d’angoscia. Nella seconda teoria sull’angoscia, in particolare, Freud considera l’ansia un segnale d’allarme riguardo a una minaccia interna (Westenberg et al.,1996). Il contributo apportato da Freud è stato quello di cambiare la concezione dell’ansia, da lui intesa come reazione a una minaccia interna, e di delineare una distinzione tra l’ansia (senza oggetto) e la paura (connessa all’oggetto). Nell’articolo in cui sono distinte le nevrosi d’ansia dalla nevrastenia Freud propone descrizioni di diverse forme d’ansia e della loro sintomatologia che sono utilizzate tutt’ora.

Il termine “psicastenia”, invece, è stato coniato da Pierre Janet partendo dall’ipotesi che fossero delle idee fisse e subconscie a innescare l’ansia, ed indica un disturbo caratterizzato da senso di incompletezza, diminuzione del senso di realtà ed esaurimento (Crocq, 2015; Westenberg et al.,1996). Fattore innovativo apportato da Janet è stato lo studio dell’attenzione e della percezione nel disturbo e del senso di sé dell’individuo (Westenberg et al.,1996).

Storia del DSM

Il DSM è uno dei sistemi di classificazione dei disturbi mentali più utilizzato. Attraverso la ricerca scientifica, il contenuto del manuale ha subito negli anni diverse modifiche e introduzioni di nuovi disturbi in modo da renderlo aggiornato e rappresentativo del contesto socio-culturale del momento (Crocq, 2015).

  • Nel DSM-I (1952), redatto dall’American Psychiatric Association (APA), la caratteristica principale dei disturbi psiconevrotici era l’ansia espressa e i meccanismi di difesa, inconsci ed automatici, che avevano lo scopo di di controllarla.
  • Anche nel DSM-II (1968) l’ansia era la caratteristica principale delle nevrosi, a tal punto che i due termini risultavano quasi sinonimi.
  • Negli anni ‘50, viene scoperto che le benzodiazepine hanno un effetto ansiolitico e questo porta a un notevole incremento della ricerca in ambito psicofarmaceutico e si iniziano a studiare approfonditamente gli effetti che le sostanze chimiche hanno sul sistema nervoso (Kasper et al., 2003).

La ricerca farmacologica e la maggiore importanza attribuita alla diagnosi descrittiva ha portato ad un abbandono del concetto di nevrosi, ritenuto troppo vago, e ad un abbandono del modello psicodinamico: nel DSM-III (1980) nevrosi d’ansia, nevrosi fobica e nevrosi ossessivo-compulsiva vengono raggruppate sotto la voce di “Disturbi d’Ansia” (Westenberg et al.,1996). Con il DSM-III vengono introdotti dei criteri diagnostici specifici e un sistema valutativo multiassiale. Tra i disturbi presenti nel manuale vi erano: disturbi fobici, suddivisi in agorafobia, fobia sociale e fobia semplice; stati d’ansia, suddivisi in disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzata e disturbo ossessivo-compulsivo; disturbo post-traumatico da stress. Da questa edizione in poi, le descrizioni e le classificazioni delle patologie vengono incrementate e questo porta a un passaggio da un modello dimensionale a un modello categoriale.

  • Nel DSM-IV (1994) i disturbi mentali sono definiti attraverso quadri sintomatologici raggruppati su basi statistiche. Un costrutto introdotto in questa edizione è, ad esempio, il disturbo acuto da stress.
  • Il DSM-5 (2013) raggruppa i disturbi d’ansia del DSM-IV in tre spettri: ansia, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi legati a traumi e fattori di stress, che condividono determinate caratteristiche neurobiologiche, genetiche e psicologiche. E’ la prima volta che la conoscenza dei circuiti neurali viene utilizzata per classificare i disturbi (Crocq, 2015). Le principali novità apportate dal DSM-5 son

    o proprio il raggruppamento dei disturbi secondo caratteristiche comuni e il raggruppamento dei disturbi connessi allo sviluppo negli stessi capitoli.

 

In conclusione, l’ansia è un disturbo psicologico che esiste da moltissimi anni ma che nel corso del tempo ha subito diverse riconcettualizzazioni in linea con la ricerca e la cultura del tempo. Quindi anche l’ansia per come la intendiamo oggi è nata e fa riferimento al contesto in cui viviamo e per tale ragione, forse, potrebbe sembrarci una patologia nuova e tipica dell’attuale società caratterizzata da ritmi frenetici, incertezza e necessità di eccellere. Come abbiamo visto, però, dobbiamo tenere presente che il costrutto si ridefinisce nel tempo ed è sempre rappresentativo del contesto nel quale si sviluppa.

Veronica Vannini

Bibliografia

American Psychiatric Association (APA) (2013), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2014.

Crocq M.A. (2015). A History of Anxiety: from Hippocrates to DSM. Dialogues Clin Neurosci. 17:319–325.

Kasper, S., den Boer, J.A., Ad Sitsen, J.M. (2003). Handbook of Depression and Anxiety, Second Edition, Revised and Expanded. Marcel Dekker Inc.

Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5 (2014). Milano, Raffaello Cortina.

Thibaut, F. (2017). Anxiety disorders: A review of current literature. Dialogues Clin. Neurosci.;19:87–88.

Westenberg, H.G.M., Den Boer, J.A., Murphy D.L. (1996). Advances in the Neurobiology of Anxiety Disorders. Wiley, New York.

World Health Organization. (2022).

 

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